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Cammino di Santiago.

La via prosegue o ricomincia?

Un Vichingo a Compostela. Diario di viaggio di Erik, il bambino più giovane ad aver fatto il Camino del Norte

Cammino di Santiago – estate 2022

La via prosegue o ricomincia?

E anche se ora è ancora soltanto un’idea, un progetto, un desiderio, un obiettivo, un miraggio, pur tuttavia avrà una fine e già la intravedo perché riesco ad immaginarla e viverla ma quel che conta ora è partire, ri-partire, dopo esattamente vent’anni essere di nuovo per strada con scarponi vecchi e calzini nuovi nei piedi, uno zaino sulla schiena, i bastoni nelle mani e lo sguardo indagatore a scrutare ogni minimo segnale. Mi brucia la terra sotto le scarpe, non posso più stare qui, ferma, ad attendere non si sa cosa, devo riprendere il timone della mia esistenza e conosco un solo modo per trovare la forza di cambiare ciò che devo cambiare.

Come Bilbo in compagnia dei suoi nani, anch’io avrò a fianco il mio mezz’uomo: avrò te come compare questa volta, piccolo mio, te che finora ho portato un po’ ovunque, che sempre ho tenuto accanto; un plauso a te che, pur di non essere costretto a separarti da me anche solo per qualche settimana, sei disposto a sobbarcarti questa enorme fatica.

Ti sto per mettere di fronte a un’enorme prova, una indimenticabile esperienza che è la miglior palestra di vita che ti possa augurare ma che ti chiederà di mettere in campo tutte le risorse che hai e anche quelle che ancora non sai di avere o che troverai per strada. Ancora non so se ce la faremo davvero, o meglio, ancora non so quanto riusciremo a fare, a percorrere, quanto saremo forti insieme e in questi giorni. che da settimane conto alla rovescia – sono preda di alti e bassi d’umore, vittima di stati d’esaltazione ed entusiasmo quanto di dubbi, paure e tentazione di mandare tutto a monte.

Ho veramente bisogno di partire, di fare questo viaggio. Proprio questo, non un altro. Questo non è un viaggio qualunque, non è una vacanza: è il Cammino e io ho bisogno di ritrovarmi, di riscoprire chi sono, di zittire tutte le fobie che ho generato in questi due anni e mezzo e non solo, di smontare la gabbia he mi sono edificata attorno in due decenni e posso farlo solo in questo modo, ovvero mettendomi per strada e camminando, camminando e dialogando con te, con me e con coloro che incontreremo giorno per giorno e che affiancheranno il nostro andare. Questa volta non sarò sola con me stessa come allora, tu sarai il mio compagno e la mia maggiore prova, il mio sostegno e il mio freno.

Per trovare il bandolo della matassa, cioè per capire come ci siamo lanciati in quest’impresa, non credo sia sufficiente ritornare al giorno di Pasqua di quest’anno, quando nella trasmissione “Alle falde del Kilimangiaro” hanno mandato in onda un breve servizio sul Cammino di Santiago, né sottolineare che in quel momento eravamo in isolamento a causa della positività al Covid, per quanto siano questi elementi imprescindibili; devo piuttosto ritornare con la memoria all’estate del 2002, esattamente venti anni fa, quando, seguendo le orme del mio migliore amico, ho stravolto tutti i miei piani per il mese di agosto e gli ho chiesto di accompagnarmi alla stazione di Porta Nuova ad informarmi sugli orari dei treni.

Fabrizio era rientrato a Torino due o tre giorni prima dopo quaranta di cammino, itinerario che io avevo seguito da lontano, chiamando ogni tanto a casa sua e chiacchierando amabilmente con suo padre che mi raccontava dei progressi e mi faceva ridere da matti. Allora non tutti avevano il cellulare e Fabrizio si rifiutava proprio di comprarne uno, così la mia curiosità era alle stelle. Appena ha messo piede a casa mi sono fatta viva per poter ascoltare il prima possibile il resoconto del viaggio. Mi ha invitata ad accompagnarlo dal fotografo a ritirare le foto fatte sviluppare (sì, la pellicola! allora si usava quella) E, d’altro canto, io dovevo recarmi in libreria a cercare una guida per Budapest, che avevo intenzione di andare a visitare da sola da lì a qualche giorno perché quell’anno non avevo trovato nessuno degli amici libero o interessato a seguirmi in quella destinazione, così ci siamo incontrati in centro di Torino per sbrigare tutte e tre le faccende.

Inutile dire che il suo racconto, molto più delle fotografie, mi ha entusiasmata.

Non sapevo nulla allora del Cammino di Santiago de Compostela e dei pellegrinaggi in generale (per quanto in realtà, a Santiago ci fossi già stata, a luglio del ’94 con i miei genitori e mio fratello durante le ferie, o per quanto, certo, avessi incontrato pullman di “pellegrini” al Colle Don Bosco, ad Assisi o li avessi visti in televisione radunati in Piazza San Pietro) quindi tutto quello che Fabrizio mi raccontava era nuovo e avvincente. Descrivere cos’è fare un Cammino, cercare di spiegare cos’è davvero essere un pellegrino è un’operazione quasi totalmente inutile e, in incerto senso, disperata: le parole non trasmetteranno mai l’esperienza viva che si accumula sulla propria pelle, tutto ciò che si può ottenere è di accendere la curiosità, stimolare il desiderio ma è questo un fine sufficientemente nobile e utile per tentare la prova. Tutti dovremmo, a mio avviso, almeno una volta nella vita e una volta sola non basta, infilare quattro pezzi essenziali in uno zaino, calzare scarpe vecchie e calzini nuovi (rinforzati), chiudere la porta dietro le spalle senza rimpianti e guardare solo in avanti, mettendo un passo innanzi all’altro. È solo questo, si tratta solo di questo in somma sintesi eppure è meraviglioso.

Mentre Fabrizio sciorinava la sua storia la guida turistica di Budapest mi è caduta più volte per terra scivolandomi dalle mani e ogni volta che accadeva lui mi diceva che era un segno (ben conoscendo il mio atteggiamento agnostico verso la metafisica ma faceva ridere): in effetti il mio cervello aveva già scelto e lo dava a vedere. A Budapest purtroppo devo ancora andare adesso ma per Santiago sono partita quarantotto ore dopo quella chiacchierata, senza alcun allenamento, senza alcuna preparazione, con un’attrezzatura scadente e inadeguata arrabatta in casa, senza una guida cartacea con le informazioni di base, senza cellulare perché non volevo essere rintracciabile (altrimenti non avrei potuto dare quel taglio netto di ci avevo bisogno) e senza macchina fotografica perché avevo deciso che gli unici ricordi che avrei conservato avrebbero dovuti essere quelli impressi nella memoria.

Ho sofferto tantissimo durante quel Cammino, eppure non ho mai smesso di desiderare di ripartire anzi, l’obiettivo era diventato compiere la Via Francigena da Canterbury a Roma, ambizione che ancora conservo e a cui non ho per nulla rinunciato: un giorno, non più tanto lontano, mi prenderò la soddisfazione di conquistarlo e sarà di nuovo con mio figlio, spero; l’ho deciso mentre lo portavo in grembo, avevo stabilito che verso i quindici o sedici anni gli avrei mostrato il mondo a passo d’uomo e ora so che è assolutamente fattibile e che gli piacerà. Perché dunque partire adesso o perché ripartire? La domanda corretta sarebbe piuttosto “perché non farlo?”. Siamo strutturalmente costruiti per camminare, siamo scesi dagli alberi milioni di anni fa per questo, abbiamo lasciato la culla africana e con la forza delle nostre gambe ci siamo dispersi nei quattro angoli del globo e poi ce ne siamo dimenticati. È così bello essere nomadi, almeno per un po’…

C’è una soddisfazione indescrivibile nello spostare sempre in avanti il proprio orizzonte, nel non percorrere due volte la stessa strada o dormire nello stesso letto, il piacere della scoperta, dell’avventura, la ri-scoperta dell’essenziale, il superamento di tante paure e tanti limiti mentali auto imposti.

Bisogna essere un po’ spartani certo, è necessario rinunciare a molti confort e suppellettili, chi non sa scegliere cosa mettere nello zaino e si carica di oggetti non essenziali ne paga presto lo scotto (on-line si trovano decine di video che insegnano come preparare uno zaino corretto, io aggiungo solo il kit anti-zecche) ma ad ogni buon conto siamo nel XXI secolo e nessuno rischia di perdersi davvero nella selva, di non trovare sostentamento o di dover dormire all’addiaccio: chi lo fa lo fa per scelta. Mille anni fa era difficile percorrere più di venti chilometri al giorno, date le condizioni delle piste, oggi il limite è del tutto personale; con spesa accessibile più o meno a tutti ci si procura buone calzature, tessuti tecnici che asciugano in fretta e riparano da sole e da eventuale pioggia e non dobbiamo scavare nella zucca per procurarci una borraccia. Insomma, non è una passeggiata ma è possibile per tutti purché ci sia il desiderio di farlo.

Accettando il mio stesso consiglio ho acquistato due mesi prima del viaggio le pedule per entrambi -che abbiamo messo in campo già il giorno successivo facendo a piedi il tratto che da casa porta a scuola: solo 1km ma tutto in salita, e fino alla fine dell’anno scolastico abbiamo continuato ad andarci a piedi-, magliette anti UV, pile leggeri ma caldi, tre paia di calzini rinforzati e pantaloni da trekking leggeri ma veloci da asciugare. Gli zaini li avevamo già, borracce, bacchettine e cappelli a tesa larga pure; ero in dubbio se portare anche i sacchi a pelo o solo i sacchi lenzuolo, ora posso dire che sicuramente sui cammini che partono dal sud il sacco lenzuolo è più che abbastanza, sulla via del Norte in piena estate se ne potrebbe anche fare a meno ma dato che negli Albergue le lenzuola che vengono fornite sono monouso o lavate tutti i giorni ma le coperte ovviamente no, in definitiva io non mi sono pentita ad averli portati, per quanto avendoli tutti e due io nel mio zaino la loro presenza la percepissi eccome.

Per quel che riguarda la preparazione fisica certo è vantaggioso essere persone in partenza non sedentarie ma nel 2002, quando sono partita la prima volta ero giovane ma non praticavo sport da anni eppure sono arrivata lo stesso; è pur vero che mi sono infiammata le ginocchia il secondo giorno con la discesa verso Roncisvalle e per due settimane ho avuto un versamento nelle stesse con grande sofferenza (per non parlare delle vesciche) ma non mi son ma fermata lo stesso e quando ho risolto quei due problemi divoravo più di 40km al giorno senza arrivare distrutta: il corpo si adegua se la mente impone. Oggi ho due decenni in più da mettere in conto ma sono attrezzata meglio, dettaglio tutt’altro che secondario. Comunque, per saggiare le nostre possibilità, nei due mesi antecedenti alla partenza siamo usciti tre volte in un’escursione “full day” percorrendo tra i 20 e i 25km e ho assodato che mio figlio Erik di otto anni e mezzo brontola e si lamenta (soprattutto del caldo) ma ce la fa e, soprattutto, recupera in modo eccezionale: la sera dopo cena è di nuovo in giardino a giocare a pallone. Le forze non gli mancano, vedremo la continuità, cioè le gambe reggeranno ma la testa?

Resta ancora uno scoglio che devo superare, ovvero la mia percezione della Pandemia. Nonostante siamo vaccinati, se non avessimo subito il contagio ad aprile e non ne fossimo usciti così facilmente non avrei mai preso in considerazione questo viaggio perché è giocoforza condividere spazi comuni con altri viandanti, però non posso dire di essere esattamente serena in merito, così pochissimi giorni prima della partenza, quando era ancora possibile disdire tutto e rinunciare, ho contattato due medici per chiedere il loro parere. Soprattutto da uno dei due non speravo di ottenere risposta, temevo che il suo lavoro sommato alla notorietà che ha avuto in questi due anni non gli lasciassero il tempo di rispondere alle fobie di un nessuno qualunque come me, invece a stretto giro di posta mi ha mandato un messaggio telegrafico ma assolutamente rassicurante, per cui anche oggi ringrazio calorosamente il Dott. Bassetti per la spinta che mi ha fornito e di cui avevo bisogno; il secondo medico che mi ha risposto non è un volto televisivo ma sulla sua professionalità e competenza non ci sono dubbi, per cui ringrazio altrettanto il Dott. Aldo Manzin. Non resta che trattenere il fiato e buttarsi: pronti, via…

Un caro saluto. Diletta

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